A 34 anni l’ala abbandona la pallacanestro: giocatore di vecchio stampo, una carriera frenata dal grave infortunio alla prima partita coi Celtics
Gordon Hayward si ritira. A 34 anni lascia la pallacanestro. Game over. Lui che è grande appassionato di videogiochi non riesce ad accedere al livello successivo, si ferma qui. Con una carriera Nba sontuosa, da 14 anni e 12.687 punti segnati, 15.2 di media per stagione, ma anche con tanti rimpianti. Cosa sarebbe successo se non si fosse infortunato al pronti-via con i Boston Celtics? Non lo sapremo mai. Forse invece che di un ottimo giocatore adesso scriveremmo di un campione, forse non ne riporteremmo le parole di addio al basket. E invece tocca farlo.
le parole
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“Mi ritiro ufficialmente, chiudo con la pallacanestro. E’ stato un viaggio incredibile e sono grato a tutti quelli che mi hanno aiutato a ottenere più di quanto avrei mai immaginato. Ringrazio i tifosi per le lettere di incoraggiamento, per avermi saputo ispirare a sognare in grande”. Un comunicato di poche righe, minimalista come lui sul parquet. Pratico, efficace, senza gli effetti speciali, in un Paese, gli Stati Uniti, in cui gli effetti speciali sono la specialità della casa. Hayward è stato una mosca bianca in Nba. Per questo ha lasciato il segno, per la sua apparente normalità in un mondo in cui quasi tutti perseguono l’originalità che garantisca un ritorno di immagine unico e remunerativo. Ma Hayward è fatto a modo suo, sa di antico, di ricette della nonna, di quelle che profumavano di buono, che facevano sentire a casa.
la carriera
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Verrà ricordato soprattutto per le gesta con la maglia degli Utah Jazz, la franchigia che lo scelse con la chiamata numero 9 del draft 2010. A Salt Lake City ha giocato sino al 2017. Poi, dopo una stagione da 21.9 punti di media per gara, da All Star, l’unica per lui, quando sembrava pronto per spiccare il volo, a entrare nella categoria fenomeni, decise di cambiare. Scelse Boston. Anzi, scelse Brad Stevens che allora allenava i Celtics. Era stato suo coach e mentore al college, a Butler University, a Indianapolis, pensava di chiudere il cerchio, pensava che in maglia verde avrebbe potuto dare la caccia al titolo Nba. E invece sul più bello la caviglia sinistra ha fatto crac.
l’infortunio
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Prima partita con la maglia verde dei Celtics, tirata a lucido per l’occasione. Per la sfida illustre con Cleveland, ai tempi quella di LeBron. Si gioca in Ohio, è il 17 ottobre 2017. Hayward nel 1° quarto salta verso il canestro per raccogliere un passaggio al ferro, James si intromette in volo, Gordon cade male per terra. Compagni di squadra e avversari si disperano subito, i giocatori si accorgono immediatamente che si tratta di qualcosa di grave. Più tardi si scoprirà quanto grave: s’è rotto caviglia e tibia sinistra. La prima stagione con Boston è durata meno di 6’. La parabola della carriera ha ricalcato quella del tiro preso per i Bulldogs di Butler da metà campo nella finalissima collegiale del 2010 contro Duke: all’ultimo secondo per vincere contro pronostico, sulla carta impossibile, che però guarda, che invece… dritto, preciso, forte sembra il giusto… eppure sputato dal canestro proprio quando l’impresa sembrava improvvisamente diventare reale.
i tanti se…
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Hayward non si era immaginato campione di basket: pareva destinato a fare tennis, semmai, non aveva stuoli di scout alle calcagna, da ragazzo. Poi l’ascesa inattesa e sorprendente. Spettacolare, persino. Quindi la delusione sul più bello. A un passo dal possibile, dopo aver fatto rimanere tutti a bocca aperta. Un’incompiuta. Affascinante, suggestiva, coreografica, però comunque un’incompiuta. Cosa sarebbe stato di Gordon se non si fosse rotto sul più bello? Si sarebbe consacrato in verde, da Larry Bird dei poveri? Stevens sarebbe ancora sulla panchina dei Celtics? E chi lo sa. Certo poi Hayward ha saputo tornare sul parquet. Ma per esplosività atletica non era più lo stesso. Quell’infortunio è stato lo spartiacque della sua carriera. Ha giocato per i Celtics per due stagioni piene, poi è finito a Charlotte. Nella Queen City, agli Hornets, di lui si è vista una versione crepuscolare. Non era più il realizzatore completo capace di segnare da ogni posizione, ottimo atleta, con i fondamentali vecchio stampo, da manuale, che sapeva battere gli avversari di tecnica, comprensione del gioco e col primo passo. Era la brutta copia di quello, ormai. Soprattutto giocava poco. Dal 2019 mai più di 52 partite di stagione regolare.
l’ultima recita
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L’ultima recita è stata con i Thunder. Arrivato in Oklahoma per essere la ciliegina sulla torta, l’ingrediente col sapore antico da integrare con le spezie giovani di squadra, non è riuscito neppure a guadagnarsi la sua fetta di torta ai playoff. Confinato in panchina, improvvisamente un intruso nel suo habitat, straniero a casa sua, nel suo mondo. Ha preso atto e preso commiato. Lui che sul parquet ha saputo eccellere per tempi di gioco, ha scelto ancora quello giusto, stavolta per dire basta. È stato bello anche così, però quanti rimpianti…
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